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L'arte come esplorazione del sé
Storie d'infanzia, archetipi psicologici e straniamenti elegiaci nella pittura di Alessandra Gasparini
Le opere di Alessandra Gasparini sono, per utilizzare un sintagma di Baudelaire, foreste di simboli. Come ovvio, potrebbero essere commentate, se non analizzate, ponendo anzitutto in risalto la notevole perizia tecnica, la capacità mimetica di restituire fedelmente, per esempio, la sensazione tattile - oltre che visiva - delle stoffe, o di caratterizzare in maniera efficacissima le espressioni dei personaggi. Ma in fondo si tratterebbe di considerazioni limitate all'evidenza fenomenica. Alessandra Gasparini, invece, va al di là di siffatti allettamenti da edonismo dello sguardo (che pure non vanno demonizzati, beninteso!), e si addentra in percorsi mentali e psichici nei quali, per comprenderla davvero, è necessario seguirla con discrezione, in silenzio, per sentieri intimi e abissali, mettendosi in ascolto ricettivo. Il procedimento esegetico si vuole dunque induttivo, a registrare inflessioni, sommovimenti, atmosfere allusive, stati d'animo, e a cercare d'inquadrarli con obiettività, ma senza distacco. Anzi, con partecipazione e coinvolgimento.
A colpire, in Alessandra Gasparini, è l'unitarietà della produzione recente, che viene a configurarsi nei termini di organico "sistema di immagini", coerente articolazione di "meccanismi del pensiero" ormai ben assestati. Il suo intento è di descrivere un universo interiore fatto di sogni, apparizioni, simboli, fantasie e, forse ancor più, di "situazioni impossibili", costruite nella mente ma mai verificatesi nella realtà oggettiva degli eventi misurabili. In questo senso, è azzardabile asserire che i dipinti dell'artista rendano visibile ciò che visibile non è (se non nella dimensione onirica, nei vagheggiamenti del dormiveglia, nelle recondità dell'inconscio).
Spesso le composizioni di Alessandra Gasparini creano - o meglio, materializzano - archetipi psicologici e relazionali: quasi alla stregua di Pathosformeln warburghiane, stanno al di fuori del tempo, anzi si pongono trasversalmente ad esso, e traggono forza della loro virtù di manifestare contenuti emotivi e affettivi che, da particolari, diventano universali, consentendo così la sopravvivenza e l'assolutizzazione di gesti, espressioni ed esperienze stratificate nella memoria.
L'immaginario è legato in maniera preponderante all'infanzia, a sensazioni, ansie, paure, giochi e fantasticherie di quell'età decisiva, prodigiosa, magica, terribile. Enormi vestiti d'antan, corsetti soffocanti, gonne a campana adorne di nappe, pizzi, mussoline e volant celano i corpi delle assorte o inquietanti bambine dipinte della Gasparini, talora quasi li sommergono, tanto che si smarrisce la percezione della loro stessa fisicità; e accade che una vestina - come recita il titolo dell'omonima opera - rischi perfino di tramutarsi in una specie di armatura, applicata alla piccola protagonista per preservarla da supposti pericoli paventati magari da adulti paranoidi.
Ricorrente è l'ambientazione in interni di vecchie abitazioni, con pavimenti in graniglia dal sapore primo-novecentesco; la resa lenticolare e la definizione puristica e quasi fotografica delle forme contrastano con l'atmosfera in cui si svolgono le scene, connotata di volta in volta da inesplicabile ermetismo, straniata stupefazione dinanzi a un enigma che ci sfugge, melanconia, senso di attesa e sospensione, o anche divertita e attonita meraviglia.
Alla precisione analitica della figurazione non corrispondono un distacco esecutivo o una pretesa di oggettività, ché nei dipinti di Alessandra Gasparini aleggia sempre un clima rarefatto e come stregato, bloccato in una sognante fissità accentuata dalla luce fredda e compatta che invade con calma gli spazi immoti; oppure compaiono elementi estranei ed estrinseci (la porzione inferiore della proboscide di un elefante, per esempio), che destabilizzano l'apparente normalità della situazione. Ma il mistero non penetra direttamente nel mondo rappresentato, nelle storie silenziose che, nella fissità di un istante eternato, si dipanano davanti agli occhi dell'osservatore (non va infatti trascurata la componente narrativa di questa pittura), ma rimane perlopiù celato dietro di esso, nascosto sotto la superficie del visibile, sicché i personaggi e le cose finiscono per essere segni magici di sé medesimi.
È un'arte, insomma, ove riveste un ruolo basilare il fattore mentale, che funge da filtro trasfigurante d'ogni oggetto, e ci immette in un'altra dimensione in cui la nostra vita si proietta, costruendo spazi che sono essi stessi psicologici. Ecco allora che l'astratta purezza descrittiva, le masse cromatiche calibrate con esatto equilibrio, i contorni netti, l'attenta strutturazione delle scene si trasfondono in un'inquietudine elegiaca che è forse la cifra prevalente della produzione pittorica di Alessandra Gasparini; nella quale, parlando sotto il profilo stilistico, ovvero di linguaggio formale, è possibile rintracciare riferimenti complessi, che vanno dai Preraffaelliti a Balthus, senza dimenticare una certa vena surrealista (vedi Delvaux), e ferma restando una determinante matrice simbolista dalle molteplici ascendenze, soprattutto nordiche (tra Puvis de Chavannes e Marées, Schwabe e Simberg, Vrubel e Somov); ma in cui la forza originale di una personalità indomita e caparbia lascia l'impronta costante di un guizzo peculiarissimo.
Viviamo in un'epoca sinistra, in cui si ha "l'impressione di camminare verso i tempi più neri del mondo", come scriveva Antoine de Saint-Exupéry nella sua ultima lettera. Poco a poco l'uomo, condizionato dalla società, dalla dittatura della finanza, dall'istupidente pervasività del sistema dell'informazione "di consumo", disimpara a servirsi delle proprie mani e del proprio cervello, avviandosi spensieratamente incontro alla servitù. Ben venga, quindi, un'arte, come quella di Alessandra Gasparini, che ci invita a esplorare noi stessi e, di conseguenza, a guardare gli altri con occhi differenti.
Paolo Bolpagni
21 luglio 2012